Oggetto di culto postumo per gli studiosi di letteratura americana, poetessa e musa emblematica di una stagione letteraria cruciale, morta suicida nel 1963 a soli trentuno anni, Sylvia Plath è assurta a simbolo delle rivendicazioni femministe del Novecento ed è stata una delle voci più potenti e limpide della letteratura del secolo scorso.
Sylvia Plath nasce il 27 ottobre 1932 a Jamaica Plain, un sobborgo di Boston. Il padre Otto Emil Plath, figlio di genitori tedeschi, si trasferì in America a sedici anni per diventare in seguito uno stimato entomologo; la madre, Aurelia Schober, apparteneva ad una famiglia austriaca emigrata nel Massachusetts, abituata in casa a parlare solo tedesco.
La carriera scolastica di Sylvia è assolutamente brillante e grazie ai suoi scritti, consegue molti premi. Uno di questi la conduce a New-York ospite di un'importante rivista del tempo. La frenetica metropoli però ha su di lei effetti devastanti e mina il suo già fragile equilibrio psichico. Non è difficile trovare nella sensibilità della poetessa gli effetti negativi dell'impatto con la mondanità newyorkese: in quelle frequentazioni avvertiva il peso dell'ipocrisia della middle-class americana, spesso adagiata su di un facile atteggiamento progressista, e il rientro a casa era sempre accompagnato da gravi crisi. In quegli anni già si parla per Sylvia di cure psichiatriche, primi ricoveri in manicomio, tentati suicidi e elettroshock.
La psicoterapia e gli elettroshock le consentono comunque di abbandonare presto la clinica e la sua vita riprende con l'Università,
i corsi di poesia, la tesi di laurea su Dostoevskij e l'amore per il poeta inglese Ted Hughes, che sposa dopo qualche tempo. Per Sylvia Plath, educata ai valori della società americana, il successo è fondamentale e la nuova condizione di moglie è un ricatto
continuo alla sua attività di scrittrice.
Inizialmente riesce a svolgere in modo perfetto le mansioni di casalinga e di moglie, senza che questo influisca sulla sua creatività,
ma in seguito, con la nascita dei figli la sua vita comincia a trascinarsi su un binario monotono. La maternità, da gesto creativo,
diventa fonte di frustrazione e causa di depressione a cui si aggiungono i tradimenti del marito Ted.
Sylvia ha la forza di separarsi, portando con sé i figli, ma cominciano anche le ristrettezze economiche. E' proprio in questo periodo che esplode la sua attività letteraria: nel 1960 pubblica "The Colossus", presentazione immediata del suo stile personale ed elaborato ma anche testimonianza del suo crollo psichico. Scrive poi il romanzo "La campana di vetro", pubblicato nel 1963 con lo pseudonimo di Victoria Lewis, testimonianza del disperato bisogno di affermazione di una donna lacerata dal conflitto irrisolto tra le aspirazioni personali
ed il ruolo impostole dalla società.
L'11 febbraio 1963 è passato solo un mese dalla pubblicazione del romanzo quando Sylvia prepara fette di pane imburrato per i figli, mette al sicuro i piccoli, sigilla porte e finestre con del nastro adesivo, scrive l'ultima poesia "Orlo", apre il gas, infila la testa nel forno e si toglie la vita.
Torturata dalla sua ansia di vivere e di esprimersi, che contraddiceva il ruolo tradizionale di moglie e madre, lacerata dal conflitto dall'essere per sé e l'essere per gli altri, la trentenne Sylvia Plath lascia un'infinità di poesie violente e disperate, ed un unico elemento di disordine nella cucina del suo appartamento: il suo corpo senza vita.
Diventata con gli anni un caso letterario, molte raccolte postume si sono succedute sugli scaffali delle librerie: "Attraversando l'acqua", "Alberi invernali" e soprattutto i celebri "Diari", pubblicati nel 1971 e curati dall'ex marito Ted Hughes.
LADY LAZARUSL'ho rifatto
Un anno ogni dieci
Ci riesco
Una specie di miracolo ambulante, la mia pelle
Splendente come un paralume nazi,
Il mio Piede destro,
Un fermacarte
La mia faccia un anonimo, pefetto
Lino ebraico.
Via il drappo,
O mio nemico!
Faccio forse paura?
Il naso, le occhiaie, la chiostra dei denti?
Il fiato puzzolente
In un giorno svanirà.
Presto, ben presto la carne
Che il sepolcro ha mangiato si sarà
Abituata a me
E io sarò una donna che sorride.
No ho che trent'anni.
E come il gatto ho nove vite da morire.
Questa è la Numero Tre.
Quale ciarpame
Da far fuori a ogni decennio.
Che miriade di filamenti.
La folla sgranocchiante nocioline
Si accalca per vedere
Che mi sbendano mano e piede
Il grande sporgliarello.
Signori e signore, ecco qui
Queste sono le mie mani,
I miei ginocchi.
Sarò anche pelle e ossa,
Ma pure sono la stessa, identica donna.
La prima volta sucesse che avevo dieci anni.
Fu un incidente.
Ma la seconda volta ero decisa
A insistere, a non recedere assolutamente.
Mi dondolavo chiusa
Come una conchiglia.
Dovettero chiamare e chiamare
E staccarmi via i vermi come perle appiccicose.
Morire
É un'arte, come ogni altra cosa.
Io lo faccio in un modo eccezionale.
Io lo faccio che sembra come inferno.
Io lo faccio che sembra reale.
Ammetterete che ho la vocazione.
È faccile abbastanza da farlo in una cella.
È faccile abbsatanza da farlo e starsene lì.
È il teatrale
Ritorno in pieno giorno
A un posto uguale, uguale viso, uguale animale
Urlo divertito:
"Miracolo!"
È questo che mi ammazza.
C'è un prezzo da pagare
Per spiare le mie cicatrici,c'e' un prezzo da pagare
per auscultare il mio cuore
Eh sì, batte.
E c'è un prezzo, un prezzo molto caro,
Per una toccatina, una parola,
O un po' del mio sangue,
O di capelli o un filo dei miei vestiti.
Eh sì, Herr Doktor.
Eh sì, Herr nemico.
Sono il vostro opus magnum.
Sono il vostro gioiello,
Creature d'oro puro
Che a uno strillo si liquefà.
Io mi rigiro e brucio.
Non crediate che io sottovaluti le vostre ansietà.
Cenere, cenere
Voi atizzate e frugate.
Carne, ossa, non ne trovate
Un pezzo di sapone,
Una fede nuziale,
Una protesi dentale.
Herr Dio, Herr Lucifero,
Attento,
Attento.
Dalla cenere io rinvengo
Con le mie rosse chiome
E mangio uomini come aria di vento.